MISTERBIANCO – È difficile anche solo scrivere. C’è un limite oltre il quale le parole sembrano troppo leggere, troppo ordinate, troppo educate per contenere il dolore, l’orrore, la vertigine che si apre davanti a una notizia come quella che arriva da Misterbianco: una madre ha lanciato dal balcone la sua bambina di appena sette mesi, Maria Rosa.
Una notizia che non vorremmo mai leggere. Succede in Italia, nel 2025. Non in una pagina buia della storia. O in un dramma cinematografico. Ma adesso. Qui. Nella nostra realtà.
La tragedia di Misterbianco
Sette mesi. Ancora latte sulle labbra, ancora pianto che non sa parlare, ancora occhi che si illuminano davanti a un sorriso, ancora il bisogno assoluto di essere stretta al petto. Una neonata. Una creatura che chiede solo amore.
E dall’altra parte, una madre – sì, una madre – che invece di accoglierla, la lancia nel vuoto. È un gesto che nega il patto primordiale tra madre e figlia: quello della protezione. Un atto che azzera ogni parola, che paralizza anche chi per mestiere le parole le cerca ogni giorno. Un gesto che sembra incomprensibile, inaccettabile. Eppure, come sempre, la realtà è più complessa di quanto vogliamo ammettere.
E a seguire le ipotesi, le ricostruzioni, l’arresto. Forse c’era un disagio psichico, forse una disperazione inascoltata, forse un crollo. Eppure, di fronte a un gesto simile, tutto questo non basta. Non è una spiegazione, non è un’assoluzione, e nemmeno un’accusa: è solo la prova che stiamo fallendo, tutti, nel vedere l’invisibile che si consuma dietro le pareti domestiche.
Depressione post-partum: l’ombra dietro il folle gesto
Quella madre, secondo i primi accertamenti, infatti, pare soffrisse di una grave forma di depressione post-partum. Un male silenzioso, devastante, che può trasformare il legame più sacro in un terreno minato. Un malessere che in Italia continuiamo a ignorare, a minimizzare, a nascondere sotto il tappeto dell’ideale materno.
Confondiamo spesso la retorica della “madre eroina” con il dovere di non cadere e cedere mai. Nel frattempo, però, molte donne vivono una maternità che le sovrasta, le schiaccia sotto aspettative disumane e, per quanto si possa provare a resistere, poi si arriva al limite.
Uno schiaffo collettivo
Questa tragedia non riguarda solo quel che resta di una famiglia dilaniata dal dolore, ma è uno schiaffo collettivo. Perché la verità è che viviamo in un Paese che ama la maternità come simbolo, ma non la protegge come condizione. Che esalta la madre come figura mitologica, ma la lascia sola quando crolla. Dove dire “non ce la faccio” è ancora un tabù. Dove soffrire dopo un parto è vissuto come un’anomalia, un difetto, una vergogna. E allora si tace. Si finge. Si resiste. Fino al punto di rottura.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, una donna su cinque sviluppa disturbi mentali dopo il parto. Una su dieci soffre di depressione grave. Ma quanti lo sanno? Quanti lo dicono? E soprattutto: quanti vengono aiutati?
In Italia la depressione post-partum non è ancora inserita nei livelli essenziali di assistenza, e quindi non è garantito un percorso di supporto psicologico gratuito o strutturato per tutte le neomamme.
I consultori sono al collasso, gli aiuti economici ridicoli. Se sei una madre fragile, devi arrangiarti. Se hai paura, ti arrangi. Se ti senti inadeguata, colpevole, disperata… ti arrangi.
Ma una madre non è un robot. Non è una santa. È una donna. E come tutte le donne, ha diritto alla cura, alla comprensione, alla possibilità di essere umana – anche nel dolore.
Non solo cronaca nera
La tragedia di Misterbianco non è solo cronaca nera. È la radiografia di un sistema che fallisce ogni giorno nel vedere il disagio, nell’ascoltare il grido silenzioso di chi si sente soffocare. È il risultato di una società che guarda, giudica, si indigna – e poi dimentica. Ma non possiamo più dimenticare.
Non possiamo dimenticare quella neonata, precipitata nel vuoto prima ancora di imparare a dire “mamma”. Non possiamo dimenticare quella madre, travolta da un male che l’ha resa irriconoscibile. E non possiamo dimenticare la nostra responsabilità collettiva: quella di costruire un Paese dove la salute mentale non sia un lusso, ma un diritto. Dove la maternità sia accolta, non idealizzata. Dove si curi, si prevenga, si accompagni. Non si giudichi.
La maternità come gioia e come rischio
In Francia e in Gran Bretagna esistono reparti ospedalieri psichiatrici madre-bambino, dove le donne possono essere curate senza separarsi dai figli. In Svezia, ogni maternità è seguita da visite domiciliari da parte di ostetriche e psicologi per prevenire disagio e depressione. In Italia, invece, ci si affida alla forza individuale. Alla rete familiare, se c’è. Troppo poco, troppo fragile. Da noi, l’indignazione tardiva. E poi il silenzio. Quel silenzio che uccide.
Oggi tutti parlano di orrore. Ma l’orrore più grande è non cambiare nulla. È continuare a lasciare sole le donne che diventano madri in bilico. È raccontare la maternità solo come gioia, e mai come rischio. È continuare a ignorare che dietro un gesto estremo spesso si nasconde una richiesta d’aiuto che nessuno ha voluto ascoltare. Perchè la maternità non è un’icona, è un viaggio. E nessuna dovrebbe affrontarlo da sola.
Questa bambina meritava di vivere. E tutte le madri meritano di essere viste. Non dopo. Prima. Prima che il silenzio si trasformi in abisso.